L’emergenza Covid coglie impreparati gli ospedali ma il male arriva da molto più lontano. La triste storia di Antonina.
Morire ancora prima di avere scoperto di avere il Covid. A 73 anni, dimenticata in una barella per 30 ore, in uno degli ospedali più importanti e rinomati della Sicilia. Un male che arriva da molto lontano, non dal nosocomio etneo. Perché se oggi in tutta Italia le ambulanze che trasportano malati di coronavirus sono costrette a fare la fila davanti ai pronto soccorso, o se si muore in auto come è successo ad un uomo in attesa di essere visitato, il vero problema è che non siamo pronti ad una nuova emergenza.
Eppure dovremmo essere preparati, vista la prima ondata Covid e le migliaia di persone che hanno perso la vita, soli, abbandonati a se stessi, accompagnati al cimitero dai camion cupi dell’esercito. No, non siamo pronti se c’è ancora chi muore perché deve aspettare. E allora, chi passa le giornate a decidere quale negozio deve chiudere, dovrebbe iniziare dagli ospedali a studiare come si possa cercare di sopravvivere al virus. Antonina Zappalà non ce l’ha fatta, e la sua famiglia è indignata.
30 ore in barella, l’agonia e la morte, a 73 anni: poi hanno scoperto che era positiva, troppo tardi
“Due giorni di agonia – hanno ricostruito i familiari di Antonina, in un esposto alla Procura – tra dolori atroci e la mancata applicazione delle procedure previste per i cittadini che chiedono assistenza con i sintomi del coronavirus”.
Secondo quanto riferisce Sicilia Live, per ricostruire ogni tassello di questa vicenda, i familiari hanno mobilitato un team di avvocati composto da Carmela Allegra, Emanuele Gullo e Francesca Carrabba. I figli di Antonina hanno conservato le registrazioni audio e i messaggi vocali di quei due giorni tra casa e ospedale.
Il tampone, sarebbe stato fatto “al secondo giorno in cui chiedeva aiuto”, nel pronto soccorso del Cannizzaro. I medici si sarebbero accorti del covid “solo quando era troppo tardi”, “poche ore prima del decesso”.
Secondo le prove in mano ai figli, tutto inizia il 16 ottobre del 2020, in piena notte, quando Antonina accusa forte mal di testa e dolore nella parte centrale del petto. Dopo poche ore si reca nel reparto di neurologia dell’ospedale Cannizzaro per una visita programmata col neurologo: soffre di ipertensione e ha un principio di demenza senile.
Poi l’arrivo in pronto soccorso “una dottoressa” parla di “attacchi di panico”. Antonina è su una sedia a rotelle, invia alla figlia messaggi vocali, ma non ha più la forza per parlare.
Un’ora dopo viene dimessa con la diagnosi di “attacchi di panico”. In otto ore di permanenza in pronto soccorso, “nessuno le ha fatto un tampone per il coronavirus”, sottolineano i legali “e quello che è accaduto fino a quel momento, sommato a quello che accadrà il giorno dopo, sarà determinante per cagionare il decesso”.
Dopo la dimissione dall’ospedale, Antonina passa una notte infernale, non riesce a prendere sonno, ha dolori al petto e mal di testa, non riesce a parlare. Il 17 ottobre, i familiari di Antonina chiamano il 118. L’ambulanza arriva alle 10.40, ma non è medicalizzata. Serve una seconda ambulanza, che giungerà nei pressi dell’abitazione 45 minuti dopo.
Antonina si reca per il secondo giorno nello stesso pronto soccorso: ancora una volta ottiene il “codice giallo”. Dopo qualche ora la figlia forza il posto di guardia e trova la madre su una lettiga, “fredda, in stato catatonico, di colore giallo e con difficoltà respiratorie”. La figlia chiede che qualcuno intervenga.
Alle 13.00 “Antonina annaspa, perde lucidità”, si legge ancora nell’esposto. Due ore dopo la dottoressa di turno comunica che la signora ha il cuore compromesso e che si trova in gravissime condizioni. Passa ancora tempo, sono circa le 18.00, ma dopo circa 30 ore dalla prima richiesta di assistenza Antonina è sottoposta al tampone per il Covid-19 e risulta positiva.
Deve essere trasferita al Policlinico. Per i famigliari scatta l’isolamento. Un’ora dopo il responso del tampone, però, la signora muore.
“Non possiamo accettare quello che è successo, ci siamo rivolti al sistema sanitario e nostra madre – dicono i figli – è stata abbandonata su una lettiga”.