Un drammatico editoriale del direttore de La Stampa, malato di coronavirus: per risvegliare le coscienze ormai sopite.
Per risvegliare le coscienze ormai sopite. Già, perché non tutti ci rendiamo conto di un pericolo vero che non se ne è mai andato. Il coronavirus esiste: “è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici”, scrive nel suo editoriale di oggi, domenica 18 ottobre, il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, da 14 giorni in ospedale perché malato di Covid.
Le sue parole sono allo stesso tempo drammatiche, commoventi ma anche piene di rabbia: lui sta vivendo un’esperienza difficilissima con la malattia, e altri negano quasi l’esistenza del virus. Altri ancora, dopo la drammatica esperienza dei primi mesi della pandemia, con le bare trasportate sui camion militari e gli anziani sterminati nelle Rsa, non sono pronti ad affrontare la nuova ondata, non sanno come muoversi, si rimpallano le responsabilità e persino le decisioni da prendere.
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“Scusate se riparlo di me – scrive Giannini – Oggi festeggio quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro. Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro”.
Il direttore del quotidiano torinese racconta i drammatici giorni della terapia intensiva. “Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, – continua Giannini – sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati […]
“Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo – aggiunge – Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire”.
Massimo Giannini si sfoga: il suo è un rammarico dettato dalla dimenticanza di tutto ciò che è stato. “Ecco il punto: ci siamo dimenticati tutto. Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi. […]
“Possibile? – si chiede Giannini – Possibile. La vita continua, persino oltre il virus. E allora rieccoci qui, nella prima come nella seconda ondata, a litigare sulle colpe, a contestarci i ritardi. Come se la tragedia già vissuta non ci fosse servita. L’ho scritto da sano e lo ripeto da malato: le cose non stanno andando come avrebbero dovuto. Ripetiamo gli errori già fatti” […]
Andrà tutto bene non può essere solo speranza. Deve essere soprattutto volontà”, conclude il direttore.
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