Sono passati quasi due mesi da quando Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. La cooperante torna a parlare con un’intervista a La Luce.
La sua non è stata una conversione da una religione all’altra. La sua è stata una conversione da non credente all’Islam.
E’ quello che ha spiegato Silvia Romano Aisha al quotidiano online La Luce, quasi due mesi dopo la sua liberazione dai terroristi che l’avevano presa in ostaggio in Kenya.
Era il 9 maggio scorso quando il premier, Giuseppe Conte, rivelò che la cooperante milanese, rapita nel novembre del 2018 e tenuta prigioniera per oltre un anno e mezzo in Somalia, stava bene e poteva rientrare a casa e riabbracciare i suoi genitori.
Oggi, Silvia ha raccontato per la prima volta i mesi di prigionia e la decisione di diventare musulmana.
“Prima di essere rapita – ha detto – ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male”.
E neppure il volontariato che l’ha portata in Africa era tra le sue priorità: “Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato.
Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie.
Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”.
Silvia Romano racconta a La Luce l’esperienza africana e il rapimento. “Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso o qualcuno lo ha deciso?”
“Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali” – continua Aisha. In questo modo ha cominciato un percorso di avvicinamento alla religione: “Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito.
Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni.
In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire.
Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Poi a un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno”.
“Mi sento protetta da Dio” – ha concluso la giovane milanese – “sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me.
Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere”.
Sulla questione velo, che ha indossato sin dal suo ritorno in Italia a maggio, ha detto: “Per me il velo è simbolo di libertà. Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio”.
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