E’ possibile essere licenziati a causa di un uso scorretto dei canali social. Un post su Facebook ha fatto scattare il licenziamento per più persone di quanto si creda. Le parole dell’esperta
Capita più spesso di quanto si possa pensare: le esternazioni dei dipendenti postate su social come Facebook o Twitter possono davvero mettere nei guai il posto di lavoro di una persona. Uno dei casi che è arrivato all’attenzione dei media è stato quello di Clemmie Hooper, nota “momfluencer” su Instagram, che si è autodenunciata per aver insultato e denigrato pubblicamente le sue rivali sui social utilizzando degli account fake.
Vediamo cosa le he successo: “All’inizio di quest’anno — dice — sono venuta a conoscenza di un sito web che conteneva migliaia di commenti negativi su di me e sulla mia famiglia. Leggerli mi ha fatto male e mi ha influenzato molto di più di quanto non avessi capito in quel preciso istante”.
Questo l’ha portata a “ricambiare il favore” e ad offendere pubblicamente quelle che considerava essere sue “nemiche”. Ad un certo punto però, la Hooper ha deciso di autodenunciarsi e di chiudere e cancellare tutti i suoi account social per poi arrivare a chiedere al Consiglio infermieristico ed ostetrico del Regno Unito di non esercitare mai più la professione.
Anche in Italia si riscontrano dei casi celebri di persone che hanno avuto guai dopo aver manifestato la propria opinione sui social. E’ il caso di Tommaso Casalini, vice allenatore della squadra giovanissimi del Grosseto, che sulla propria bacheca Facebook aveva rivolto insulti alla sedicenne Greta Thunberg, attivista ambientalista svedese. Di lì a poco arriva la notizia del licenziamento in tronco da parte del club del Grosseto calcio: “Per comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che su valori tecnici”.
Ad occuparsi del problema è stata Virginia Mantouvalou, professoressa specializzata in diritti umani e diritto del lavoro all’University College London, che ha scritto un lavoro accademico dal titolo: “Ho perso il lavoro dopo un post su Facebook. È corretto?”.
Secondo la professoressa “I datori di lavoro non dovrebbero avere il diritto di censurare le opinioni e le preferenze morali, politiche e di altro genere dei loro dipendenti anche se causano danni agli affari… Il problema però è che i tribunali non hanno familiarità sulla materia dei social e che queste piattaforme, essendo online, sono spazi che diventano praticamente pubblici”.
Poi prosegue: “La natura del lavoro assunto e le dimensioni dell’azienda sono fattori importanti che devono essere presi in considerazione nella valutazione del danno della reputazione al datore di lavoro. Ma il datore di lavoro non è un giudice della moralità dei suoi dipendenti”.
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